24 giugno 2006

Mi ricordo il tema di italiano

Verso la fine dell'era quaternaria frequentavo il liceo classico. In quei remoti tempi felici, dopo i tre anni di scuola media, al classico c'erano due anni di ginnasio e poi tre anni del liceo propriamente detto. In prima liceo si cambiava comunque professore di italiano e proprio quell'anno era arrivato un professore nuovo, sulla quarantina o giù di lì, dall'aria austera e dall'eloquio secco, essenziale, quasi tagliente. Aveva sangue blu, ma non se la tirava poi troppo. Prima settimana di scuola, prime due ore di italiano,.tema in classe, ovvio. Naturalmente non posso ricordare quale fossel'argomento da sviluppare, ma non ho mai più dimenticato come andò. Non so se usa ancora così, ma all'epoca i temi si scrivevano su fogli protocollo a righe. Li si piegava in due in verticale e si scriveva sulla metà sinistra del foglio, lasciando tutta la metà destra vuota per le correzioni. Un tema che si rispettasse *non poteva* essere lungo meno di tre facciate (noi le chiamavamo "colonne"), per prendere un *8* dovevi scriverne almeno quattro, se poi aspiravi a qualcosa di più prendevi un altro foglio e continuavi sulla quinta facciata, la sesta, ecc. Svolto il tema, lo consegno al professore. Ho riempito le mie brave 4 facciate e sono in pace col mondo. Così anche tutti gli altri miei compagni, ovvio. Ci aspettiamo che il prof ci riporti il compito corretto la settimana dopo, e naturalmente ciascuno muore dalla voglia di sapere come sarà valutato (è il primo impatto). Invece no. Il giorno dopo c'è una sola ora d'italiano e il prof ci riporta i temi e ce li riconsegna. Non ci sono correzioni, non c'è il voto. Dice: "Bene, ragazzi, ora avete un'ora di tempo per analizzare i concetti che volevate esprimere nel vostro tema, cerchiarli uno per uno e dirli tutti ugualmente usando solo 2 facciate". Silenzio tombale... facce sbigottite... "Ma come? Il tema è buono quando è lungo, no? Cosa gli salta in mente a questo qui?" Non fu facile, anzi era durissimo. E lui implacabile a stralciare con segnacci vigorosi i periodi troppo lunghi, gli aggettivi superflui, le frasi che contenessero più di una subordinata. E giù una pioggia di votacci a chi proprio non voleva rassegnarsi alla brevità. Così, per i tre anni successivi, fu una continua rincorsa a fare temi corti, chiari, dalla struttura logica rigorosa sviluppata con costruzioni linguistiche semplici (soggetto -predicato -complemento). E guai a chi parlava di "fare la brutta copia". No, no, solo "belle copie", tutto di getto: che importa se c'è qualche correzione? Ci dava al massimo un'ora, sia che si trattasse di raccontare le vacanze estive che di commentare un brano del Manzoni. Inutile aggiungere che nella mia scuola la nostra Terza C fu la migliore classe della Maturità 1970-71. (Ricordo di Il dito e la luna)

23 giugno 2006

Mi ricordo il Subbuteo

Mi ricordo un campo di calcio, ventidue giocatori disposti con cura e grande sapienza tattica. Gli attaccanti pronti ad attaccare e i difensori a difendere. Ma anche viceversa. Che poi, a pensarci, le regole del gioco non le ricordo quasi più. Ma il Subbuteo, invece, quello sì che lo ricordo. Un panno verde steso su una tavola di truciolato, quante punesse che si usavano. Perché si usavano le punesse, mi pare. O almeno le usavo io. Che ieri, pensando a questo Mi ricordo, son sceso in cantina. Chissà se ritrovo le mie vecchie squadre, mi son detto. E scendendo in cantina, a cercare le mie vecchie squadre, io pensavo di trovare, che ne so, il Brasile. O anche l'Italia. O almeno l'Inghilterra. E invece, quando poi le ho trovate, mi sono accorto che no. Il Bari, avevo. E anche un'Argentina con tutti i giocatori di colore. E poi anche Haiti. Che strane squadre avevo. Comunque, che partite a Subbuteo. Che tornei, d'estate. Perdevo sempre, io. O almeno così mi ricordo. Io avevo solo il campo da gioco e qualche squadra. Spesso le ginocchia leggermente piegate dei giocatori si spezzavano, schiacciate da qualcuno o qualcosa. Ero bravissimo ad incollarle. Ma altri avevano anche un sacco di accessori, le transenne, il pubblico, gli arbitri, addirittura gli omini con le braccia alzate per battere la rimessa laterale. Un po', ma giusto un po', li invidiavo quelli che avevano tutti questi accessori. Che, poi, ma non ne sono sicuro, pare che a decretare la fine del Subbuteo sia stato Paul Wolfowitz, a quei tempi amministratore della Hasbro, poi diventato il viceministro della Difesa di Bush. Uno proprio cattivo, ecco. E poi, per finire, quando ieri son sceso in cantina a cercare le mie vecchie squadre del Subbuteo, ho trovato anche un modellino di treno della Lima. Ma questa mi sa che è un'altra storia. (Ricordo di 8e49)

22 giugno 2006

Mi ricordo lo S.H.A.D.O.

Mi ricordo l'Intercettore e lo S.H.A.D.O. Mobile della Dinky Toys, che furono il mio sogno infantile per molto tempo. Erano giocattoli, ma innanzitutto modelli di metallo pesante, bellissimi. che riportavano al mondo (allora ancora rigorosamente in bianco e nero) della TV dei ragazzi. Con il comandante Straker e le stupende ragazze dalla parrucca "metallizzata" che tanto colpivano la mia fantasia preadolescente. Specie il "tenente Ellis". L'intercettore era di un colore difforme da quello della serie TV (verde acido anzichè bianco, chissà perchè). Riuscì a ottenere che mia nonna Colomba, in occasione di uno dei suoi viaggi annuali dal sud alla città dove ero nato e sono cresciuto, me li regalasse (uno per anno, ovviamente), perchè giocattoli così costosi non rientravano nel nostro budget familiare. Promisi in cambio cose mirabolanti dal punto di vista comportamentale. E sottoscrissi un foglietto in cui dichiaravo di non avere altre richieste di giochi, purchè mi venisse regalato lo S.H.A.D.O. Mobile. Ricordo che mia nonna, che era una donna molto spiritosa - spirito semplice, popolare - scherzava sempre paragonando la per lei misteriosa parola S.H.A.D.O. a un'altra che nel suo dialetto significava "dissenteria". Con quel pezzi UFO ci giocai per anni finchè non passò l'età del gioco. Passando attraverso l'epoca del modellismo, usai dei soldatini 1:72 della Atlantic per realizzare i personaggi principali, Straker, il colonnello Freeman e la squadra di pattuglia dello S.H.A.D.O. Mobile. Usavo lavorare con uno spillo rovente i soldatini originali per modificare le uniformi. La pittura della Humbrol faceva il resto. Purtroppo non potevo creare i personaggi femminili. L'Intercettore e lo S.H.A.D.O. Mobile, ammaccati, ce li ho ancora. (Ricordo di Williamnessuno)

20 giugno 2006

Mi ricordo i libri per ragazzi

Quand'ero bambino, facciamo quando frequentavo le elementari, in casa mia non c'erano che i libri di scuola, solo quelli. Ora ne ho tanti che se pure campassi quattro secoli, e non ne portassi più in casa, non ce la farei a leggerli tutti. E' la legge del contrappasso, una condanna che mi infliggo da solo ogni giorno. Non è esatto dire che c'erano solo testi scolastici, il libro di lettura e il mitico sussidiario (miei e di mia sorella più grande). Prima che leggessi e rilegessi i primi due romanzi della mia vita, "I ragazzi della via Pal" di Ferenc Molnar e "Il principe e il povero" di Mark Twain, gli unici che interruppero la serie infinita di "Topolino", "Capitan Miki" e "Grande Blek", prima di due testi che hanno impresso nei miei gusti letterari i segni fondanti dell'avventura, del gioco, dell'umorismo e della tragedia (poi venne "Totò il buono" di Zavattini e fui irrimediabilmente perso), prima e contemporaneamente a casa c'era un piccola enciclopedia per ragazzi: "Vedere e sapere". E' stata buttata in qualche trasloco, ormai aveva tutti dorsi rotti, dopo rudimentali restauri con il nastro adesivo trasparente, le pagine erano ingiallite, qualcuna quasi del tutto strappata e c'erano sottolineature a penna e matita un po' dovunque. "Vedere e sapere" è stata la Bibbia della mia infanzia. Erano, se la memoria non è completamente guasta, quattordici smilzi volumi, con la copertina blu e dei fregi argentati. Non era, sempre se ricordo bene, né alfabetica né tematica. Era pensata come una lettura progressiva o saltellante, soggetta ai benefici del caso. Erano alternati, ogni tre o quattro pagine, argomenti di storia, geografia, scienza, favole di un vari paesi, riassunti illustrati con piccole vignette e didascalie dei grandi romanzi (ricordo "David Copperfield") che io saltavo perché ero più attratto dalla storia e dalla geografia. I vari capitoli dell'enciclopedia erano illustrati con disegni che non differivano molto da quelli dei libri di scuola, mi sembravano solo più esotici. C'erano storie che leggevo e rileggevo. Ne ricordo bene una per tutte: era la rielaborazione di una favola africana, s'intitolava, più o meno, "Quando le cose cominciarono a parlare". Raccontava di un villaggio nel quale, a un bel giorno, porte, pentole, coltelli e sedie cominciarono a parlare. Il disegno che accompagnava il testo raffigurava un negro ciccione che saltava su da uno sgabello di legno, la faccia spaventata guardava un'altra faccia, quella che improvvisamente era comparsa sulla superficie piana dello sgabello, un'espressione rabbiosa ma divertente. Ricordo anche delle pagine che mettevano in fila i volti delle varie razze umane. Allora l'antropologia e il politically correct non esistevano. Si chiamavano razze. C'era il lappone con il cappuccio colorato, l'esquimese con gli occhi a mandorla e il copricano impellicciato, il cinese con il codino, il pellerossa con le piume, l'andino, lo scandinavo biondo, lo spagnolo bruno, il balcanico indefinito, l'indiano, il turco con la pipa, l'arabo con il turbante. E c'erano i negri. Probabilmente "Vedere e sapere" era stata pensata negli anni Cinquanta, quando l'Italia vantava ancora un passato di piccola, sgangherata e sciagurata potenza coloniale. Le facce in fila davano molto spazio alle popolazioni del Corno d'Africa: c'era il somalo, l'eritreo, l'etiope, il masai, e poi i bantu, lo zulu e quelli del Biafra. Tutta gente che si puzzava di fame. Ma per me gli africani erano magnifici, con i loro volti tutti scuri ma così diversi. Chi aveva facce tonde, grasse con labbra carnose e nasi camusi, le donne con i colli da giraffa allungati artificialmente, gli eritrei con i capelli lungi crespi, che sembravano una sorta di maghi medievali, altri volti erano magri, con nasi sottili, belli e sempre neri neri. E poi quei vestiti che si intravedevano dai disegni: coloratissimi. Immaginavo, come tutti i bambini, di fare, un giorno, l'esploratore. Nelle cartine geografiche c'erano ancora delle piccole zone grigie: non c'era scritto "hic sunt leones", ma, senza saperlo, questo pensavo io. (Ricordo di Rapportoconfidenziale)

Mi ricordo Rai Stereonotte

Mi ricordo Rai Stereonotte. Incominciava sulla modulazione di frequenza di Radio 3 alle 24,30, dopo il Giornale della Mezzanotte, terminava alle 6,00 del mattino. La trasmissione, ideata da Pierluigi Tabasso, aveva una sigla scritta da Roberto Colombo che si chiamava Viaggiando. Andò in onda dall’ 8 novembre 1982 al luglio 1995. Io incominciai a seguirla abitualmente intorno al 1983/84, specialmente nel fine settimana. Mi ricordo i led rossi del radioregistratore sulla scrivania, e le cuffie che mi aprivano quel mondo musicale. I conduttori che si alternavano si portavano i dischi da casa, erano lì esclusivamente a trasmettere la musica che reputavano interessante, ognuno aveva la sua “linea”, seguiva i propri generi, faceva le proprie scoperte. Ogni genere musicale aveva una sua voce corrispondente, voci spesso straordinariamente radiofoniche. C’era Massimo Cotto, “specializzato” in Bruce Springsteen e rock americano insieme a Mauro Zambellini, Teresa De Santis con il post punk e la new wave inglese di This Mortal Coil, Big Country, Smiths, Cocteau Twins, Eco & the Bunnymen, il garage underground australiano di Francesco Adinolfi, il folk e la sperimentazione di Emanuele Li Castro, il pop anglosassone di Giancarlo Susanna. E mi ricordo, c’erano anche Ernesto Assante, Ernesto De Pascale, Felice Liperi, Peppe Videtti, Giampiero Vigorito. La voce che mi ricordo di più è quella di Teresa De Santis: morbida, profonda, un po’ sensualnotturna. Io non sognavo Teresa De Santis, ma la su a voce. Avrei voluto vedere Teresa De Santis in studio prima di mandare un pezzo. Poi, però, mi dicevo che se l’avessi vista dal vivo la sua voce avrebbe perso il suo invincibile fascino. Mi ricordo quando Teresa De Santis annunciò Where the rose is sawn dei Big Country, appena usciti con Steel Town: al primo rullare della batteria, quasi da marcetta, e al primo accordo di chitarra fui definitivamente innamorato di Teresa De Santis. Della sua voce.

18 giugno 2006

Mi ricordo i gelati

Mi ricordo il gelato. Ma non uno solo. Due per ogni occasione: Al mare, dopo la corsa sulle macchinine: la Pantera rosa con la faccia disegnata ai gusti fragola, panna e cacao, sul retro uno strato di cioccolato. E il Cono palla che mi cascava sempre la palla ... al caramello... mica mi piaceva... Ai giardinetti di Modena, la zia offriva la bistecca Bismark col sugo di succo di lamponi o gli spaghetti al ragù di frutti di bosco... d'altronde è piatto locale... Nella gelateria sotto casa il puffo, psichedelico, colore e insapore... E il cioccolato bianco, un pregio, una rarità... Nel cono se sei diventato grande...Nella coppetta se ancora no. Chissà se magari non mi avessero abbandonato avrei fatto scelte meno drastiche, che ora per principio niente remake, guerre, carne, primi, sambuche e galak... Fortuna che in giro, se pure a fatica, il break si trova. (Ricordo di Baju)

Mi ricordo il Mondo

Prima i compiti, e poi, alle quattro, tutti in giardino a discutere per due ore sul gioco da fare e andava a finire che ogni volta bisognava fare la Conta. Sotto la cappa del camino…Astamblam…Unci dunci…esistono ancora le Conte? Mio figlio non ne conosce, ma d’altra parte non ha nemmeno mai avuto le croste nelle ginocchia, peccato, io ho ancora una bella cicatrice rotonda, frutto di una gara di salto dal muretto. Una volta non c’erano i cerotti sofisticati di adesso, mia mamma prendeva l’alcool, ché secondo lei l’acqua ossigenata non disinfettava abbastanza, figurati, se non brucia non può disinfettare, e me lo versava direttamente sul ginocchio e guai a fiatare, così la prossima volta stai più attenta. Mi fasciava e subito via, zoppicando, ancora in giardino. La tragedia era il cambio della medicazione, ché la garza si attaccava alla ferita e staccarla era un dramma, tanto che mi sembra di sentirlo ancora adesso il dolore per quello strappo tremendo, che però allora non impediva certo di tornare giù in cortile. I maschi volevano sempre giocare a pallone, e allora in genere si finiva per litigare e noi femmine li abbandonavamo per giocare al Mondo. Dentro il giardino c’erano aiuole e ghiaia, e quindi dovevamo uscire dal cancello e andare di fianco alla casa, in una piccola strada privata, bella e liscia come una lavagna. Sull’asfalto si poteva disegnare, con un sasso, il grande rettangolo del Mondo, con la mezzaluna sulla cima. Lo si divideva in dieci settori numerati, dal primo in basso a destra, 1..2…3..fino al 10, in basso a sinistra. A turno, poi, si lanciava un sasso, piatto e liscio, a mo’ di piattello, l’abilità stava nel farlo cadere nella casella giusta, e, saltando con un piede solo, lo si doveva raccogliere, senza toccare le linee..la uno..la due e via, fino alla dieci. Se sbagliavi dovevi ricominciare e peggio per te. Con il sasso sulla fronte, e poi sulla spalla, e poi sul dito e, via via sempre più difficile, dovevi passare tutte le caselle, chiedendo “permesso”, e, se ti veniva accordato, nessun problema, il passo era facile, ma c’era sempre una carogna che ti rispondeva ”indietro” e allora dovevi saltare la casella proibita..e il sasso cadeva quasi sempre. La parte più bella era quella finale, quando, ad occhi chiusi, dovevi oltrepassare tutte le caselle del Mondo, senza mai pestare la riga e ad ogni passo chiedevi “cielo?” se ti rispondevano “sereno” proseguivi, se invece la risposta era “nuvoloso” avevi sbagliato e indietro e daccapo. A dir la verità esisteva anche un’altra versione del cielo-sereno, era quella meno fine dei maschi: ham- salam-cotghè… ham-salame-cotechino. E poi tutti a far merenda e a guardare Giramondo il Cinegiornale dei Ragazzi. Non avete capito nulla, vero? Poco male, io ho giocato e adesso sto meglio. (Ricordo di Francesca Ferrari)