20 giugno 2006

Mi ricordo i libri per ragazzi

Quand'ero bambino, facciamo quando frequentavo le elementari, in casa mia non c'erano che i libri di scuola, solo quelli. Ora ne ho tanti che se pure campassi quattro secoli, e non ne portassi più in casa, non ce la farei a leggerli tutti. E' la legge del contrappasso, una condanna che mi infliggo da solo ogni giorno. Non è esatto dire che c'erano solo testi scolastici, il libro di lettura e il mitico sussidiario (miei e di mia sorella più grande). Prima che leggessi e rilegessi i primi due romanzi della mia vita, "I ragazzi della via Pal" di Ferenc Molnar e "Il principe e il povero" di Mark Twain, gli unici che interruppero la serie infinita di "Topolino", "Capitan Miki" e "Grande Blek", prima di due testi che hanno impresso nei miei gusti letterari i segni fondanti dell'avventura, del gioco, dell'umorismo e della tragedia (poi venne "Totò il buono" di Zavattini e fui irrimediabilmente perso), prima e contemporaneamente a casa c'era un piccola enciclopedia per ragazzi: "Vedere e sapere". E' stata buttata in qualche trasloco, ormai aveva tutti dorsi rotti, dopo rudimentali restauri con il nastro adesivo trasparente, le pagine erano ingiallite, qualcuna quasi del tutto strappata e c'erano sottolineature a penna e matita un po' dovunque. "Vedere e sapere" è stata la Bibbia della mia infanzia. Erano, se la memoria non è completamente guasta, quattordici smilzi volumi, con la copertina blu e dei fregi argentati. Non era, sempre se ricordo bene, né alfabetica né tematica. Era pensata come una lettura progressiva o saltellante, soggetta ai benefici del caso. Erano alternati, ogni tre o quattro pagine, argomenti di storia, geografia, scienza, favole di un vari paesi, riassunti illustrati con piccole vignette e didascalie dei grandi romanzi (ricordo "David Copperfield") che io saltavo perché ero più attratto dalla storia e dalla geografia. I vari capitoli dell'enciclopedia erano illustrati con disegni che non differivano molto da quelli dei libri di scuola, mi sembravano solo più esotici. C'erano storie che leggevo e rileggevo. Ne ricordo bene una per tutte: era la rielaborazione di una favola africana, s'intitolava, più o meno, "Quando le cose cominciarono a parlare". Raccontava di un villaggio nel quale, a un bel giorno, porte, pentole, coltelli e sedie cominciarono a parlare. Il disegno che accompagnava il testo raffigurava un negro ciccione che saltava su da uno sgabello di legno, la faccia spaventata guardava un'altra faccia, quella che improvvisamente era comparsa sulla superficie piana dello sgabello, un'espressione rabbiosa ma divertente. Ricordo anche delle pagine che mettevano in fila i volti delle varie razze umane. Allora l'antropologia e il politically correct non esistevano. Si chiamavano razze. C'era il lappone con il cappuccio colorato, l'esquimese con gli occhi a mandorla e il copricano impellicciato, il cinese con il codino, il pellerossa con le piume, l'andino, lo scandinavo biondo, lo spagnolo bruno, il balcanico indefinito, l'indiano, il turco con la pipa, l'arabo con il turbante. E c'erano i negri. Probabilmente "Vedere e sapere" era stata pensata negli anni Cinquanta, quando l'Italia vantava ancora un passato di piccola, sgangherata e sciagurata potenza coloniale. Le facce in fila davano molto spazio alle popolazioni del Corno d'Africa: c'era il somalo, l'eritreo, l'etiope, il masai, e poi i bantu, lo zulu e quelli del Biafra. Tutta gente che si puzzava di fame. Ma per me gli africani erano magnifici, con i loro volti tutti scuri ma così diversi. Chi aveva facce tonde, grasse con labbra carnose e nasi camusi, le donne con i colli da giraffa allungati artificialmente, gli eritrei con i capelli lungi crespi, che sembravano una sorta di maghi medievali, altri volti erano magri, con nasi sottili, belli e sempre neri neri. E poi quei vestiti che si intravedevano dai disegni: coloratissimi. Immaginavo, come tutti i bambini, di fare, un giorno, l'esploratore. Nelle cartine geografiche c'erano ancora delle piccole zone grigie: non c'era scritto "hic sunt leones", ma, senza saperlo, questo pensavo io. (Ricordo di Rapportoconfidenziale)

3 Comments:

Anonymous Anonimo said...

già, i ragazzi della via pal (che conservo gelosamente), romanzo per un'altra infanzia, che sanciva la fine dei giochi e degli spazi e tempi di libertà e l'inizio della vita crudele. Io da bambina delicata qual'ero ne ricreavo una personale giocando con mio cugino nel cortile di mia nonna paterna a fare duelli a colpi di ceppi di legno....
non è colpa mia, nessuno mi regalava mai bambole, ecco....

9:39 AM  
Anonymous Anonimo said...

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7:02 PM  
Blogger Unknown said...

ciao,
purtroppo quel genere di libri che pur avendo la scritta "Enciclopedia" sopra, NON era "noiosa" solo testo senza un briciolo d'immagini, mi interessava sempre di più man mano che sfogliavo. Anche in bagno!!! ;) Che peccato che tutto adesso si è ridotto ai tablet, smartphone e chi più ne ha, più ne metta; da qui sorge il mio re-interessamento a questi piccoli "capolavori".
Cerco l'intera collezione di 14 volumi, per comprarla a mio figlio e un giorno potergliela leggere.
Se hai qualche informazione a riguardo, ti prego di contattarmi. Altrimenti, bhè, grazie per lo scambio di ricordi! :)

4:01 AM  

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